Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol’

Questa è la citazione di Dostoevskij in cui vi imbatterete in apertura di qualunque recensione online de “Il cappotto” di Gogol’. Ma questa non è una recensione, è un’impressione di lettura. Non solo: è l’impressione di lettura di una ragazza che in tutte le altre recensioni e impressioni di lettura ha trovato poco o nulla di ciò che è saltato in mente a lei durante la breve immersione in questo racconto. Perciò eccomi qui a dare la mia personale opinione su “Il cappotto” di Gogol’: attendo in risposta opinioni affini alla mia ma soprattutto opinioni contrarie, ché quando si è d’accordo le discussioni si esauriscono troppo in fretta.

E dunque, un po’ di trama. In una Pietroburgo di metà ‘800, l’impiegato Akakij Akakievic conduce la sua monotona, triste, oserei dire anche un poco inutile vita da impiegato pietroburghese. Passa le sue ore di lavoro copiando documenti e subendo le prese in giro dei colleghi, va a casa, cena, ricomincia a copiare documenti, dorme, ripete tutto daccapo il giorno successivo, in un loop di monotonia e inutilità che il povero Akakij Akakievic sembra non percepire nemmeno.

Poi, un giorno, la svolta: il sarto lo avverte che il cappotto con cui se ne va in giro, “la vestaglia”, non si può più rattoppare, è troppo consumato ed è necessario fabbricarne uno nuovo. Akakij Akakievic si dispera, va nel panico, poi però se ne fa una ragione, risparmia fino all’osso ed eccolo qui, il suo nuovo, splendente, caldo cappotto nuovo. E con il cappotto nuovo sembra affacciarsi all’orizzonte una vita nuova, nella quale i colleghi lo ritengono addirittura degno di cenare e bere un bicchierino insieme a loro! Però…però è pur sempre il povero, inutile, sfortunato Akakij Akakievic, che non appena si affaccia a questa nuova e luminosa vita viene derubato del suo preziosissimo cappotto.

Il finale lo scoprirete da voi, naturalmente.

Non ci vorrà molto, il racconto dura giusto un centinaio di pagine; eppure queste cento pagine sono, a mio parere, assolutamente perfette. Gogol’ dipinge ogni personaggio e fenomeno sociale con un’ironia dissacrante, non viene risparmiato niente a nessuno, il ridicolo nascosto in qualunque cosa viene trovato e messo in piazza, e nonostante la distanza temporale e culturale non possiamo fare a meno di identificare questo o quel personaggio con questa o quella persona di nostra conoscenza.

Gogol’ conosce bene l’uomo, la sua psicologia, e proprio per questo si diverte a ridere di lui, a volte in modo più amaro, è vero, ma sempre consapevole del fatto che il mondo è un circo e per di più siamo tutti di passaggio, non avrebbe proprio senso prendersi troppo sul serio.

In poche pagine Gogol’ tratteggia gli uffici pietroburghesi, Akakij Akakievic, Petrovic, sua moglie e l’importante personaggio, ma anche altre mille città e altrettanti impiegati, sarti, mogli esaurite e importanti personaggi. Perché ogni individuo è unico ma allo stesso tempo universale, nel tempo e nello spazio, e un artista eccellente sarà sempre in grado di dipingere vicende e individui assoluti.

Ho amato la sua scrittura, che mi ha fatta sogghignare per gran parte del tempo, persino nelle parti potenzialmente più tragiche, perché ho ritrovato molto lo sguardo ironico su sé stessi e sul mondo con cui mi piace prendere la vita. “Il cappotto” è un racconto estremamente geniale nella sua semplicità, in cui nulla, davvero nulla è fuori posto. E’ una di quelle letture che ti fanno innamorare a tal punto della scrittura di un autore da temere terribilmente qualunque altro contatto con lo stesso autore, per paura di perdere la magia.

E allora forza, lettori più esperti di me! Non fatemi perdere la magia. Consigliatemi altre pagine gogoliane con cui dialogare in questo caldo mese di luglio. Io, in cambio, la prossima volta che ci sentiremo vi porterò in viaggio in una Mosca di più di trent’anni fa, molto diversa da quella di cui ci è capitato di parlare finora. Mi sembra un ottimo accordo, no?

Chiara

 

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